Classifiche Tari: impossibile comparare dati provenienti da contesti diversi
Ogni anno si assiste alla pubblicazione di graduatorie, sui costi della TARI sostenuti dalle famiglie, che nulla hanno di scientifico e, anzi, spesso generano confusione.
Nessuna istituzione, invece, pubblica graduatorie di questo genere, poiché non è tecnicamente e oggettivamente comparabile il livello di prestazioni e dunque di costi, che nei diversi territori concorrono alla formazione della TARI e ricadono sulle famiglie.
ARERA, l’Autorità nazionale di regolazione che impone il metodo tariffario a tutti i Comuni italiani, si guarda bene dal formulare graduatorie e classifiche, proprio per la impossibilità di comparare oggettivamente dati che sono estratti da contesti inconfrontabili.
Lo stesso fanno i vari Ministeri interessati (Ambiente, Finanze e Bilancio), l’ISPRA e gli Istituti di ricerca (CENSIS, ISTAT) come pure le Regioni.
Assumere un costo medio a famiglia, estrapolando parametri sui componenti il nucleo familiare, il reddito ISEE e i metri quadri dell’abitazione, non tiene conto affatto delle prestazioni che quel territorio riceve, della qualità dei servizi resi e, quindi, dei costi connessi alla gestione del ciclo dei rifiuti che, in ogni territorio, è differente, così come non tiene conto dei dati censuari e catastali ovviamente differenti tra un Comune e l’altro.
Non tiene conto, soprattutto, dei Regolamenti comunali e dei Piani delle Attività che ogni Comune richiede ai gestori del servizio. Il Regolamento comunale sulla gestione dei servizi è diverso tra Comune e Comune e incide sulla TARI in modo importante (si pensi agli sconti per le famiglie indigenti, ad esempio). Così il Piano delle Attività, approvato da ciascun Comune, è sostenuto da costi che tengono conto sia delle prestazioni di servizio (igiene urbana, raccolta e trasporto dei rifiuti) e sia dell’organizzazione del ciclo industriale (impianti di selezione, trattamento e smaltimento). Perdipiù, si deve sempre tener presente l’incidenza tariffaria sull’utenza domestica (le famiglie) rispetto alle utenze non domestiche (commercio, professioni, artigianato, ecc.), poiché il costo complessivo dei servizi, che il Comune deve far pagare integralmente ai cittadini, risente delle percentuali attribuite a ciascuna categoria di utenza.
Non si possono allestire graduatorie se non tenendo conto di questi fattori che, però e per l’appunto, sono talmente diversi da Comune a Comune da renderne impossibile il confronto.
La pubblicazione della UIL, al pari di tante altre dello stesso tenore, non sfugge a questo limite e sul piano tecnico non rappresenta altro che un esercizio astratto privo di fondamento. Una uguale pubblicazione dell’IRCAF (Istituto Ricerche Consumi Ambiente e Formazione), infatti, riferita allo stesso periodo e agli stessi parametri della ricerca pubblicata dalla UIL, individua in Catania, Genova, Brindisi, Messina, Salerno, Napoli, Benevento, Agrigento, Taranto, Siracusa, Trapani e Cagliari i Comuni in cui le famiglie pagherebbero la TARI più alta in Italia. Per la UIL, invece, sarebbe Pisa.
A proposito dei costi del ciclo dei rifiuti e sul loro riverbero sociale, un parametro che viene considerato a riferimento da ISPRA (ente sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Ambiente) è il costo euro/tonnellata, che pure non contempla le diversità organizzative di ciascun contesto. Ad ogni caso, ad esempio, nell’anno 2023 la città di Pisa, con 52,72 euro/tonnellata di rifiuti raccolti trattati e smaltiti si colloca al 1.000 posto di tutti i Comuni Italiani, mentre fra le città Capoluogo la più costosa è Reggio Calabria con 106,08 euro/tonnellata, mentre Isernia chiude la lista con 24,34 euro/tonnellata.
Anche questo dato, come detto, è solo parzialmente attendibile e non attesta la virtuosità e l’efficienza di un sistema di gestione dei rifiuti rispetto ad un altro.
Estrapolazioni e comparazioni arbitrarie di dati inconfrontabili non costituiscono, purtroppo, oggetto di studio e analisi, ma concorrono certamente a generare dubbi e incertezza.